mercoledì 16 maggio 2012

Su un piatto di nichel

Periodicamente, di fronte ad infelici bilanci sulla propria vita che mai si dovrebbero fare - soprattutto a ventiquattro anni quando tutto è ancora in ballo e il terreno sotto ai piedi se non c'è non è perché sia già crollato, ma perché ancora bisogna crearselo - ci si ritrova a combattere contro una lista infinita di pensieri negativi che puntano solo all'autodistruzione e all'autocommiserazione.
Nonostante sia assolutamente cosciente di quanto questa pratica sia improduttiva, o meglio, controproducente, di tanto in tanto mi ritrovo con una melma d'angoscia che sale fin sotto al naso, dando l'impressione di occludere le vie respiratorie già parzialmente ostruite dalla brutta aria che tira di questi tempi in Italia per "noi giovani". 
"Noi giovani" è un'espressione che mi dà quasi i brividi. La concettualizzo come una produzione in serie che sforna questi strani "esemplari" dalla dubbia utilità. Dei burattini un po' stravaganti su un nastro trasportatore che si interrompe bruscamente nel vuoto. Mi repelle anche un po' rientrare nella categoria "noi giovani". Ogni tanto penso che sarebbe più comodo far parte degli anziani, magari anche di quelli un po' bacchettoni che si arrogano il diritto di dire che siamo una generazione che fa schifo e che i percorsi che abbiamo intrapreso non ci portano da nessuna parte. Senza rendersi conto che la generazione che fa schifo l'hanno cresciuta loro e che sono sempre loro ad aver creato i percorsi che noi abbiamo intrapreso e che non servono a niente.
I nostri piani di studio poco spendibili sul piano del lavoro non li abbiamo ideati noi, la "tre più due" che tutti dicono sia un modo per studiare di meno, non l'abbiamo voluta noi (e per inciso, tengo a precisare che non è che con la tre più due si studia di meno, ma si studia peggio.), l'eterna vita da stagisti per passione che nostro malgrado ci costringe ancora a non poter avere una casa nostra e a pesare sulle nostre famiglie, beh nemmeno quella, l'abbiamo voluta noi. Tutto questo ci è stato servito su un piatto di nichel, nonostante avessimo fatto presente di essere allergici a questa sostanza.
Quello che manca, è la collaborazione intergenerazionale. Ad ogni fase della vita si tende a scordarsi di quella precedente, oppure a guardarla con rimpianto per i tempi andati mostrando una certa intolleranza per chi invece ci è ancora dentro, o peggio ancora, ancora ci deve arrivare. Per questo, "voi grandi" invece di lasciare appoggiata all'albero la scaletta di cui vi siete serviti per salire in cima, la spazzate via con un ghigno sprezzante e ci invitate a servirci delle quattro liane putrefatte che voi non avete mai avuto il coraggio di utilizzare.
Quel che mi spaventa, è che a ventiquattro anni io mi sento già grande. Non abbastanza per essere ammessa nel circolo dei cinici, ma troppo per essere ancora bollata nella categoria "giovani" con tutti relativi i tratti semantici dispregiativi che gli sono attribuiti.
La buona volontà, la determinazione e la caparbietà mi hanno sempre contraddistinta. Insieme a tanta voglia di lavorare sodo per ottenere quello che volevo sempre meritandomelo. Eppure c'è un limite di sopportazione per tutto.
A un passo dalla laurea specialistica, dopo aver avuto il coraggio di rimanere dentro un sistema universitario polveroso da cui il meglio che ho tratto è stato grazie all'approfondimento personale e alle poche persone che lavorano davvero per crescere delle persone riponendo in loro sincera fiducia, mi sento dire che ora le lauree non bastano più. Che ci vuole il master. Me lo sento dire dalla stessa generazione che mi dà della bambocciona perché a ventiquattro anni ancora studio, non lavoro e sto a casa dei miei. Mila euro per un master. Dopo aver passato una vita sui libri. Ti dicono che devi entrare nel mondo del lavoro, che devi smettere di studiare. Ma per farlo, devi ancora spendere euro su euro per... studiare! Per quanto tempo ancora? Quand'è che smetterò di pagare gli altri e inizieranno a pagare me per applicare le conoscenze che ho acquisito? Quand'è che smetteranno di prenderci in giro con annunci di lavoro che ricercano profili di giovani laureati con esperienza pluriennale per tre mesi di sfruttamento in cui vogliono convincerti di essere un imbecille?

Non è solo il lavoro che mi preoccupa.
Se devo dare una colpa a questa generazione di "noi giovani", è la reazione emozionale conseguente a questo panorama devastato.
Siamo soli. Emotivamente disabili. Assopiti ed iperconnessi.
Le relazioni si sfilacciano di fronte alle incertezze.
Le persone si allontanano di fronte all'incapacità di tenersi strette.
In mezzo alla burrasca piuttosto che stringerci le mani e fare muro, ci ritraiamo per paura di contrarre qualche legame che può cambiarci. Che può resistere nel tempo.
L'amore ne risente. La tecnologia non fa sentire la mancanza di nessuno. Nell'assenza ci perseguita la presenza. 
Nessuno fa follie per amore. Nessuno fa follie per conquistare il cuore di qualcun altro.
Un fiore, una corsa a perdifiato per raggiungere un treno o un aereo in partenza, una sorpresa inaspettata sotto la porta di casa.
Forse nessuno fa più follie, perché nessuno crede più di valere una follia.
Qualcuno prima o poi salirà su uno dei tanti treni o aerei con i quali fuggo costantemente dal timore del nulla. Qualcuno prima o poi confesserà di amarmi con la voce spezzata da una corsa folle per non lasciarmi andare.
Qualcuno prima o poi fuggirà con me, con la voglia di restare.
Il mio cuore non è sereno. 
Pieno di tutti, ma vuoto di te.
Pieno di tutto, ma vuoto di me.